FOTOGRAFIA#1

La parola fotografia è densa di storia e in continua evoluzione. Un vocabolo a più strati, che fa da “filo rosso” attraverso epoche e stili, immaginari e visioni.

Questa volta la uso quasi come pretesto, riservandomi di tornare più avanti sulle sue tante sfaccettature. Parto da qui per parlare di un film di quelli che restano dentro,  che comunque con la fotografia ha molto a che fare. Si intitola Alla ricerca di Vivian Maier. Regista del documentario è  John Maloof, giovane storico americano che si trova quasi per caso ad analizzare il mistero di una eccentrica quanto sconosciuta street photograper-bambinaia. Un’insolita  ”doppia vita” durante la quale Vivian fotografa senza sosta  tutto e tutti,  senza però mai stampare neanche un negativo. Immagini che restate per anni e anni nel buio e nel silenzio di vecchi scatoloni, stampate per la prima volta si rivelano folgoranti.

Attimi di vita catturati con uno sguardo carico di empatia, ironia e tenerezza. Mentre scorre il  film le immagini di Vivian bucano lo schermo, afferrano magnetiche il cuore e la mente. Più di 100.000 scatti. Bambini, Coppie. Mendicanti. Vecchi. Animali. Operai. Oggetti.

In ognuno c’è un frammento di mondo, un’emozione intensa. Anche nei suoi autoritratti, dove spesso compare come un’ombra alla Hitchcock o riflessa su vetri e specchi.

Autoritratto – Immagine di Vivian Maier

Attraverso il paziente lavoro di scavo del regista e soprattutto attraverso la sensibilità di un’artista eccezionale quanto enigmatica, la fotografia si manifesta come strumento di un racconto che procede per lampi e intuizioni visive di cui non ci si stanca mai.

La Sfinge di Giza e la Piramide Khufu, 1959. Egitto. Immagine di Vivian Maier.

La bellezza della storia di Vivian Maier è data proprio dal fatto che le sue immagini vivono oltre, nonostante e per lei. Le grandi istituzioni, dal MOMA alla Tate, restano indifferenti alle segnalazioni e alla richiesta di supporto di Maloof, che allora le fa conoscere a tutti su un blog e poi, man mano organizza diverse mostre negli Usa e in Europa. In ogni occasione la risposta del pubblico è istantanea. Apprezzamenti e condivisioni a fiumi sul web, code davanti alle gallerie e inaugurazioni dove si percepisce lo stupore e l’entusiasmo della scoperta.

Le persone riconoscono d’istinto la sincerità e la maestria dello sguardo di Vivian, anche senza sapere chi è, senza essere condizionati dalla fama o dal beneplacito dei critici. Un contatto vergine fra l’immagine e un pubblico pronto ad avvertirne il valore profondo, al di là di ogni mediazione.

Il film invita anche a riflettere sulla funzione dell’immagine fotografica come traccia. Come parte di un puzzle esistenziale che si può cercare di ricomporre. Colpisce come Maloof risale al nebuloso passato di Vivian. Alcuni suoi scatti ritraggono un paesino di montagna, forse francese. Maloof ne estrapola il campanile, dalla sagoma molto caratteristica, e come fosse un’impronta digitale lo sovrappone a un’infinità di altre foto di paesini francesi finché non trova quello giusto, sperduto nelle Alpi della Provenza, dove è nata la madre di Vivian e dove lei è tornata da ragazza.

E poi ci sono le miriadi di oggetti (giornali, biglietti, scarpe, camicette, lettere, locandine…) che Vivian colleziona con cura maniacale in tutta la sua vita e che Maloof raggruppa, cataloga e fotografa dall’alto. Immagini a loro volta.

Mosaico di oggetti, dal film Alla ricerca di Vivian Maier.

Mappe o geroglifici che permettono di avvicinarsi alla storia di un’anima, degli occhi di Vivian, della sua vicenda personale e artistica.

Insomma, un film da non perdere per iniziare a esplorare, da una prospettiva molto particolare e toccante, il significato della parola fotografia.

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